27 GENNAIO 2021
L’ANTIFASCISMO SICILIANO DURANTE IL VENTENNIO
Pare strano, ma non è ancora stata scritta una storia complessiva dell’antifascismo siciliano. Vi sono ricostruzioni parziali e di parte, o di singoli eventi, che riguardano comunisti, socialisti, azionisti, anarchici, cattolici e persino massoni – ai margini delle quali fan capolino anche le sommosse popolari, più o meno spontanee, gli scioperi, le manifestazioni di piazza – ma manca uno studio che le colleghi fra loro, dia organicità all’avversione della maggioranza dei siciliani verso il fascismo e ne testimoni la continuità durante il Ventennio. Proverò a fornire qualche elemento in proposito.
Se consideriamo le caratteristiche persistenti e originarie del fenomeno fascista (1. la costruzione di uno Stato forte e totalitario; 2. la composizione sociale, che è quella di una piccola e media borghesia in crisi economica e identitaria; 3. L’esercizio sistematico di ogni forma di violenza per conquistare il potere; 4. il “machiavellismo” ideologico per mantenerlo), riusciamo a comprendere perché il fascismo non potesse avere una grande presa in Sicilia all’inizio degli anni ‘20: 1. i siciliani erano sempre stati contro l’accentramento amministrativo e contro lo Stato forte; 2. la piccola e media borghesia erano poco consistenti e concentrate solo nelle grandi città; 3. la violenza di classe era endemica specialmente nella Sicilia occidentale dove, a favore degli agrari, era già propinata dai gruppi mafiosi; 4. infine, per quanto riguarda la metodologia politica del mezzo che prevale sul fine, essa era usuale tra i tanti notabilati e le clientele politiche preesistenti nell’Isola.
Perciò i fascisti dovettero procedere alla conquista della Sicilia dapprima con l’annientamento fisico delle opposizioni sociali e politiche nelle zone che nell’immediato dopoguerra avevano visto il prevalere delle componenti più avanzate del movimento operaio e contadino, nel milazzese inizialmente, poi nel trapanese e nel siracusano, particolarmente nel circondario di Modica (l’attuale provincia di Ragusa), e in alcune città come Messina e Caltanissetta, cittadelle del sindacalismo rivoluzionario; in seguito, “comprando” e annettendo i principali esponenti del partito liberale e della democrazia sociale (quattro di loro finirono ministri nel primo governo Mussolini), che erano allora i primi due partiti politici dell’Isola.
LA RESISTENZA ALLO STRAGISMO FASCISTA
La tattica utilizzata dai fascisti per la conquista militare della Sicilia era la stessa sperimentata nelle regioni del Centro e Nord Italia. Si concentravano tutti insieme in un determinato luogo con pistole e bombe a mano, su camionette montate di mitragliatrici, e piombavano nel centro delle città sparando e terrorizzando la popolazione. Qui distruggevano col fuoco le Camere del lavoro, le sedi delle organizzazioni operaie e contadine, i municipi nelle mani dei “rossi”, costringendo con la forza alle dimissioni Sindaco e consiglieri. Uccidevano, ferivano, compivano attentati, sequestravano e bastonavano chi vi si opponeva.
La prima strage in cui sono coinvolti dei fascisti avvenne a Catania, in piazza Manganelli, il 28 luglio 1920, con 7 morti tra cui una guardia regia e una ventina di feriti; la seconda a Comiso il 7 novembre 1920, con 4 morti e 10 feriti; seguirono Ragusa il 9 aprile 1921, con 4 morti e 60 feriti; Caltanissetta il 26 aprile 1921, con 6 morti e numerosi feriti; Castelvetrano l’8 maggio 1921, in connubio con i mafiosi locali, che fece 7 morti di cui 2 fascisti, e 43 feriti ufficialmente accertati; Modica il 29 maggio 1921, con 6 morti e 4 feriti; San Piero Patti il 4 settembre 1921, con 2 morti e diversi feriti; Lentini il 10 luglio 1922 con 6 morti e 50 feriti; accompagnate dallo stillicidio di continue uccisioni di singoli militanti in numerose altre località, che non si fermarono neppure dopo la Marcia su Roma e s’intensificarono anzi alla vigilia delle elezioni truccate del 6 aprile 1924.
I fascisti in Sicilia, che nel novembre 1920 ammontavano a poche decine, ancora nel maggio 1923 non superavano le 10.000 unità, di cui ben 6.828 nelle sole province di Catania e Siracusa, dove venivano ampiamente finanziate e armate dagli agrari. Nella Sicilia occidentale, infatti, a fare il lavoro sporco trovavano la concorrenza della mafia rurale. Le prime gesta le compirono in provincia di Messina, nel milazzese dove il movimento contadino aveva acquistato particolarmente forza dopo le recenti occupazioni. Nonostante il terrore e i primi morti lasciati sul terreno, incontrarono però grande resistenza a Librizzi, dove squadre di contadini guidate da Nino Puglisi riuscirono a respingere, dall’autunno 1921 all’aprile 1923, i reiterati assalti dei fascisti di Patti, San Piero Patti e Raccuja, facendo loro ripetutamente assaggiare la legge del “santu marruggiu”; e a Caltanissetta. Quest’ultima aveva assistito nei primi mesi del 1921 ad un crescendo di violenze squadristiche, con incendi, devastazioni e agguati ai singoli militanti. Il ferroviere sindacalista Raffaele Frugis, assieme al giovane comunista Pompeo Colajanni e all’anarchico Michele Mangione, riuscì a costituire un fronte unico dal basso di squadre operaie, di studenti e di intellettuali che fronteggiarono validamente armati l’offensiva fascista. Il 1° maggio 1922 in un comizio in piazza, seguito da un imponente corteo proletario, potrà rivendicare la liberazione almeno temporanea della città. Altri significativi episodi di resistenza vittoriosa alla violenza squadrista si ebbero a Misterbianco nel luglio 1921, a Catania il 1° maggio e il 2 novembre 1922, e a Biancavilla, dove si assistette ad una insurrezione popolare nel dicembre 1922.
GLI ARDITI DEL POPOLO
Il primo movimento di resistenza armata al fascismo, in Sicilia come nel resto d’Italia, fu quello degli “Arditi del popolo”, gruppi di ex combattenti di sinistra, inquadrati militarmente, che apparvero in dieci località siciliane a partire dal luglio 1921: a Palermo, Marsala e Caltanissetta, dove si scontrarono con l’opposizione dei vertici del PCDI e la repressione delle forze di polizia, ed ebbero vita stentata, riuscendo tuttavia a incutere timore ai fascisti nei pochi scontri armati di cui furono protagonisti. Più consistenti i reparti di “arditi” di Catania, Terranova (l’attuale Gela) e Messina, dove godettero dell’appoggio unitario di socialisti, repubblicani, demolaburisti e soprattutto anarchici. In queste città avvennero scontri cruenti che videro i fascisti, finalmente contrastati sul loro terreno e con la loro stessa tattica, “scappare” vergognosamente. Nel siracusano, dopo le stragi e lo stillicidio di uccisioni di sindacalisti, vennero costituite sezioni con pochi elementi a Modica, Vittoria, Lentini e Avola. Di tutte, la sezione di “arditi del popolo” più importante rimase quella di Catania, che giunse ad avere 400 componenti, e durò, tra le più longeve in Italia, fino all’ottobre 1922, quando il governo arrestò i suoi principali esponenti inviandoli alle isole di confino o, nel caso dei più irriducibili, nei manicomi criminali: è il caso degli anarchici Giovanni Marinelli e Giovanni Taccetta.
Sempre gli anarchici, là dove non fu possibile costituire sezioni di “arditi del popolo”, su proposta di Paolo Schicchi e del “Vespro anarchico” di Palermo, il quindicinale che prima e più di ogni altro organo di stampa denunciò la marea montante del fascismo siciliano, organizzarono in diverse località “comitati di difesa proletaria”, alcuni dei quali dureranno fino al 1926. Tra i più combattivi si segnalarono quelli di Agrigento, Naro, Canicattì, Cefalù, Caltanissetta, Noto, Sciacca, Scicli e soprattutto Siracusa e località limitrofe, dove dal 9 al 12 marzo 1925 venne organizzata con successo la resistenza popolare all’invasione della città da parte di migliaia di militi fascisti in procinto d’imbarcarsi per la Libia. Un altro episodio, ampiamente divulgato all’estero, ebbe per protagonista a Naro Gaetano Pontillo che il 20 e 21 luglio 1923 riuscì a sottrarsi all’arresto freddando due assalitori e seminando decine di fascisti e poliziotti postisi alle sue calcagna. Molti di quei primi resistenti, a differenza di Pontillo, di Puglisi o di Taccetta, riusciranno, dopo un periodo passato in clandestinità, ad espatriare e ad alimentare le colonie di fuoriusciti antifascisti all’estero, specialmente a Tunisi e a Marsiglia, in contatto con quelli rimasti all’interno grazie ad una estesa rete clandestina, supportata dai marittimi delle navi che assicuravano il collegamento con la Sicilia.
IL “SOLDINO”
Se gli “arditi del popolo” e i “comitati di difesa proletaria” rappresentano la prima resistenza armata al fascismo, il movimento del “soldino” costituisce la prima resistenza civile. Esso prende il nome da una moneta da 5 centesimi, recante l’effigie del re Vittorio Emanuele, che i militanti appuntavano sul petto. Nato a Messina il 6 maggio 1923 dalla protesta di nuclei di ferrovieri e impiegati statali, licenziati dal primo governo Mussolini, che consideravano il re quale garante delle libertà statutarie violate, raggiunse ben presto diverse altre località siciliane (Catania, Siracusa, Barcellona, Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, ecc.) e calabresi, dove vennero inscenate imponenti manifestazioni di popolo, con assalto a caserme della milizia e sedi del Fascio. Senza un vero coordinamento, il movimento sopravvisse lo spazio di una stagione, sopraffatto dalle autorità dello Stato fascista, e tuttavia dimostrò platealmente la disapprovazione di masse consistenti di popolazione nei confronti del fascismo e dei suoi metodi, e costituì l’humus della protesta accesa, a partire dal giugno dell’anno successivo, dall’omicidio di Giacomo Matteotti.
LA PROTESTA MATTEOTTI
La scomparsa e il rinvenimento del cadavere di Matteotti, il 10 giugno 1924, diventò infatti in Sicilia il pretesto per nuove imponenti manifestazioni di piazza che si svolsero soprattutto a Catania, Palermo, Messina e Agrigento, tendenti a riunire in un fronte unico (disertato però dai comunisti e da una parte degli anarchici) tutte le opposizioni al fascismo. Al carattere politico, la protesta aggiunse infatti anche quello sindacale, con un’ondata di scioperi proclamati specialmente ad Avola, Licata, Campofranco, Racalmuto, Piazza Armerina, ecc., che si prolungarono nel 1925 e che i fascisti, demoralizzati, non riuscirono a contenere. Gli ex combattenti di sinistra fondarono un’associazione, “Italia Libera”, che operò come servizio d’ordine nelle manifestazioni e si mostrò disponibile alla lotta armata. Su questa disponibilità farà perno Gaetano Marino, un ex combattente divenuto anarchico, per costituire, nelle campagne tra Salemi ed Alcamo, una nuova formazione armata che non ebbe il tempo di operare per l’arresto preventivo dello stesso Marino ma anche per il clima improvvisamente mutato nel paese dopo che Mussolini, per salvare il governo, aveva intrapreso la strada della dittatura, sospendendo nel gennaio 1925 le libertà di stampa e di associazione, incarcerando e processando, a partire dal novembre 1926, tutti gli oppositori politici, deputati inclusi.
L’OPPOSIZIONE AL REGIME
Nei comuni dell’Isola che ospitavano nuclei consistenti di fascisti regnava un clima di terrore, ampliato dalla connivenza delle autorità, per le continue violenze e intimidazioni. Mentre l’opposizione politica veniva messa a tacere con anni di carcere e di confino (emblematici i processi tenutisi presso il Tribunale Speciale fascista contro comunisti e anarchici tenutisi a Catania e a Messina tra il 1927 e il 1929), l’opposizione popolare si manifestava in una miriade di atti di ribellione e disobbedienza isolati. Sono circa 50.000 gli individui che vennero rubricati dalla polizia in Sicilia come sovversivi (600.000 in tutta Italia) per episodi di insofferenza al regime che sono indice di una resistenza quotidiana diffusa alla propaganda martellante del regime.
IL TENTATIVO SCHICCHI
Paolo Schicchi, che per tutto il Ventennio rimarrà il principale esponente dell’anarchismo ma anche dell’antifascismo militante isolano (come gli verrà riconosciuto al confino politico di Ponza e di Ventotene) era stato costretto da Mussolini in persona ad interrompere le pubblicazioni del “Vespro anarchico” nell’ottobre 1923, mentre i redattori e collaboratori del giornale davano vita a diversi numeri unici clandestini in varie località dell’Isola (Agrigento, Noto, Gela, Lentini, Siracusa e Catania, dove il vittoriese Giovanni Consalvo – presto riparato a Paternò – pubblica “Il Piccone”) -, continua a scrivere per le testate anarchiche nordamericane che introduce clandestinamente nell’Isola. Il 30 aprile e il 1° maggio 1924 subirà pertanto due processi che faranno giurisprudenza, grazie ad un’abile autodifesa e all’assistenza di luminari del foro, quali Francesco Saverio Merlino, Rocco Gullo, Francesco Alessi e Orazio Campo, perché stabiliva l’incolpabilità di chi pubblicava all’estero notizie contrarie al regime.
Schicchi riuscirà ad eludere la sorveglianza della polizia il 6 ottobre 1924 e a riparare all’estero, dove fonderà nuovi giornali, inviati clandestinamente sull’Isola, insieme ad appelli ai Siciliani alla lotta contro il fascismo, rinverdendo le tradizioni del Vespro e del Risorgimento al grido fatidico: MORA! MORA!
Il 20 agosto 1930 tentava il rientro in Sicilia, nascondendosi clandestinamente nel piroscafo “Argentina” insieme a due compagni: scoperto, verrà deferito al Tribunale per la Salvezza dello Stato, e condannato prima al carcere di Turi di Bari e poi al confino nelle isole di Ponza e Ventotene. Nell’esilio aveva intessuto un’ampia rete di contatti con i compagni rimasti sull’Isola, che l’avevano convinto della possibilità di suscitare con l’esempio un moto di ribellione, da iniziarsi nelle province di Palermo e di Trapani. Contemporaneamente al suo arresto, il governo provvide a quello di molti componenti dei gruppi rivoluzionari che attendevano il suo arrivo per passare all’azione.
IL FRONTE UNICO ANTIFASCISTA ITALIANO
Quanto Schicchi aveva preconizzato nel 1930, cioè la creazione di una vasta rete pre-insurrezionale di forze antifasciste per tutta l’Isola, andò maturando due anni dopo, grazie all’arrivo di emissari del Partito comunista – le cui poche cellule, rimaste slegate fra loro, operavano da tempo nella più stretta clandestinità –. Questi emissari (Bonomo Tominez, Pompeo Colajanni, Pasquale Burzillà), riuscirono a rianimare i militanti specialmente delle province di Messina, di Caltanissetta e di Catania, a collegarli fra loro e a spronarli ad effettuare attività sindacali ed azioni di propaganda. Contemporaneamente, nelle stesse località e fra continue persecuzioni poliziesche che ne assottigliavano periodicamente le fila, socialisti come Agatino Bonfiglio, azionisti come Attilio Palmisciano e massoni come Giuseppe Caporlingua cominciarono ad operare nello stesso senso superando le reciproche diffidenze e gli steccati ideologici.
Il salto di qualità venne però effettuato nell’autunno del 1933 con la Creazione del FUAI (Fronte Unico Antifascista Italiano), il “il primo tentativo, in sede nazionale, di riannodare le file antifasciste” come scriverà nelle sue memorie il comunista separatista Franco Grasso, uno dei suoi iniziatori.
Il movimento nacque dalla saldatura tra le nuove leve, una generazione di militanti antifascisti aliena da dispute ideologiche, ed alcuni maturi organizzatori delle lotte sociali del passato. L’iniziativa venne presa, quasi contemporaneamente a Palermo da Ettore Gervasi, Franco Grasso ed altri, per lo più studenti, e a Vittoria, dal lato opposto dell’Isola, da Vincenzo Terranova, e portò in breve tempo alla creazione di decine di gruppi il cui sviluppo non fu interrotto neppure dall’arresto dei 24 principali promotori, avvenuto a seguito della soffiata di una spia il 12 febbraio 1935. Esso disponeva di una stamperia clandestina e di un organo di propaganda “L’Italia antifascista”, stampato a Vittoria, e si proponeva tra l’altro “di affidare a studenti o laureati in chimica il compito di preparare esplosivi occorrenti per eventuali attentati; … di suscitare scandali, propagandando notizie tendenziose specialmente nel ceto operaio; … di non limitarsi a discussioni teoriche, ma entrare nel campo d’azione e fare qualcosa di forte per scuotere l’opinione pubblica”. Se a Palermo, dopo la retata del ’35, si stenterà a ricostituire il “FUAI” (un “Comitato di liberazione”, legato ad altri proliferati nel frattempo sull’Isola, sorse solo nel 1941), altrove invece (a Catania, nel trapanese, nel nisseno e nel ragusano), l’organizzazione rimase pressoché integra, e fomentò gli scioperi contro il carovita che cominciarono ad apparire, sempre più frequenti, dal 1936, specialmente tra i lavoratori delle miniere e dei trasporti, e i disoccupati (una imponente manifestazione con decine di arresti si ebbe a Palermo nel gennaio 1937); organizzò espatri e rimpatri clandestini (ad esempio di combattenti per la rivoluzione spagnola); la diffusione massiccia di stampati provenienti dall’estero e, soprattutto, la raccolta di armi che dette modo in alcune località (a Sommatino con Calogero Diana, a Sciacca e paesi limitrofi con Accursio Miraglia), di organizzare bande armate partigiane, anche piuttosto numerose, che operarono una serie di sabotaggi senza poter passare, alla vigilia dello sbarco degli alleati, a vere e proprie azioni di guerra.
GIUSTIZIA E LIBERTÀ
Di questa rete capillare, che includeva un po’ tutti, dai socialisti agli anarchici, dai comunisti ai massoni, si erano distaccate le formazioni di “Giustizia e Libertà” che cominciarono ad operare nel messinese, sotto la guida di Nino Pino Ballotta, reduce da Parigi, e nel catanese, sotto quella di Antonio Canepa, fin dal 1937, con azioni armate ripetute, e con un’organizzazione ermetica difficilissima da smantellare. Nel 1940, allo scoppio della guerra, Canepa ed una parte dei suoi diventano agenti del SIS, il Servizio segreto militare inglese, con la collaborazione del quale passeranno dai sabotaggi alle linee telefoniche ad alcuni attentati eclatanti: a fine 1941 ad un treno carico di munizioni, nei pressi della stazione di Ramondetta vicino Messina; il 10 giugno 1943 all’aeroporto militare di Gerbini e il 7 luglio successivo al treno armato di cannoni di stanza nella stazione di Catania. Sono le prime vere azioni di un movimento partigiano al quale migliaia di siciliani, e lo stesso Canepa, daranno un apporto consistente in Sicilia (con la sollevazione di interi paesi: Trecastagni, Barrafranca, Pedara e Mascalucia, Adrano ecc.) e nel continente nei mesi seguenti.
Ma oltre che nelle azioni armate, Canepa si distinse anche in quelle propagandistiche. In tutti i licei di Catania e all’Università per anni circolarono copiosamente i suoi dattiloscritti, che firmava con lo pseudonimo di Mario Turri, come questo del 1942 intitolato Vent’anni di malgoverno fascista, con cui concludo questo intervento:
“Prima ancora di arrivare al governo i fascisti incominciarono a vessare il popolo siciliano con incendi, devastazioni, batoste e assassini. Distrussero le leghe contadine, le cooperative operaie, le Camere del Lavoro, le Case del Popolo, i circoli democratici, repubblicani e socialisti. Occorre che dica che ci sono voluti quindici anni prima che Mussolini si accorgesse che in Sicilia ci sono Comuni senz’acqua, senza fogne, senza luce e senza strade? Non dico con quali criteri assurdi e pulcinelleschi è stata condotta la cosiddetta redenzione del latifondo. Sperava forse in questo modo di legare a sé le classi lavoratrici. Ma i nostri contadini e i nostri pastori, signor Mussolini, non sono degli imbecilli! Hanno le scarpe grosse, ma il cervello fino! Dopo essersi visti strappare con gli ammassi il frumento e l’olio, la lana e perfino il bestiame, hanno ben capito che anche la bonifica del latifondo è un trucco. Uno dei soliti imbrogli del governo per riempire le tasche dei suoi lacchè! Ed ora ci hanno trascinato in guerra. Perché? Perché a Mussolini piace così! In Africa, in Grecia, in Russia, già 80.000 siciliani, tra morti e feriti, hanno versato il loro sangue per l’ambizione di quest’uomo. Mussolini ha mandato i tedeschi nell’isola; hanno occupato d’autorità i migliori alberghi, i più bei palazzi, le più comode ville; si sono installati dovunque da padroni; comprano ogni cosa con il nostro danaro; mangiano a due ganascie tutto ciò che è nostro; si ubriacano, violentano, quando possono, le nostre donne. Mussolini, te ne sei finalmente accorto che la Sicilia non è affatto fascista sino al midollo? Che la Sicilia accoglierebbe a braccia aperte e bandiere spiegate gli inglesi, gli americani e chiunque altro volesse aiutarci a riconquistare la nostra libertà, la nostra indipendenza? Tutto dovrete restituirci, tutto, fino all’ultima pecora, fino all’ultimo chicco di grano, fino all’ultimo soldo, tutto quel che ci avete rubato e truffato …”
Natale Musarra