PER UNA SOCIETA’ LIBERA E SOLIDALE. Documento della FAS per l’azione diretta dal basso.

Per una società
libera e solidale

La pandemia da Sars-CoV-2, il virus che provoca la malattia denominata Covid-19, sta determinando un profondo stravolgimento delle nostre vite e delle nostre abitudini: cessazione dell’attività in diversi settori economici, sospensione delle lezioni nelle scuole, confinamento nelle case (per chi ce l’ha) di una parte consistente della popolazione mondiale. Non a caso, quindi, si parla di evento epocale che potrebbe segnare una svolta nella storia dell’uomo.
Gli Stati e i governi reagiscono al diffondersi del contagio in modo spesso disordinato e improvvisato. Viene imposto il divieto di circolare e muoversi liberamente con un accavallarsi di decisioni e controindicazioni inestricabili e anche contraddittorie; è previsto un sostegno economico per chi è impossibilitato a svolgere il proprio lavoro, ma anche in questo caso confusione e ritardi sono la norma, mentre la gran parte delle risorse è appannaggio di imprese e grandi aziende e contemporaneamente centinaia di migliaia di famiglie sono abbandonate a se stesse, sostenute solo da una diffusa solidarietà; il sistema sanitario è in grande affanno, travolto dall’emergenza e solo con grandissimi sforzi da parte dei lavoratori si cerca di contenere l’incalzare del contagio, tuttavia rimane il fatto che l’Italia fa registrare uno tra i più alti tassi di mortalità per covid al mondo.

Salvare l’ordine esistente

L’azione più rilevante dei governi è indirizzata a preservare le attuali strutture economiche e sociali in quanto una crisi così profonda e pervasiva potrebbe fare vacillare l’ordine esistente. E’ quindi necessario fare ricorso all’apparato costrittivo e propagandistico per mantenere inalterati gli equilibri sociali. Seminare paura e insicurezza e, nello stesso tempo, prospettare un’unica via d’uscita sono argomenti indispensabili in questo percorso. Come è fondamentale mantenere la centralità del sistema produttivo e finanziario. L’attività economica delle grandi aziende non si è quasi mai arrestata, pure nei momenti più duri della pandemia si è continuato a produrre persino armi; le borse hanno continuato a speculare, l’azionariato a percepire dividendi, la ricchezza a concentrarsi sempre più nelle mani di pochi, come certificano tutte le statistiche. Per evitare l’accendersi di pericolosi focolai di rivolta si è cercato di fornire il minimo vitale ad una parte di popolazione in sofferenza, al resto ci ha pensato la carità o la solidarietà. Intanto il debito pubblico italiano ha continuato e continua ad aumentare, a fine emergenza si prevede raggiungerà il 160% del Pil, mentre la questione delle insostenibili disuguaglianze viene sollevata con molta cautela e in forme di pantomima politica. L’arrivo del vaccino ha rappresentato la quadratura del cerchio: potere e scienza possono far fronte a qualsiasi emergenza, pur grave, tutto può continuare sullo stesso binario. Il ritorno alla normalità, vaccinati e contenti, può avvenire all’insegna della ripresa economica, della crescita del Pil, della stabilizzazione dei rapporti sociali. Recovery Fund, Mes e ogni altro strumento della finanza pubblica per accrescere investimenti e produttività sono lì a dimostrarlo. Pazienza per i morti.
Tuttavia niente può nascondere il fatto che una società che si ritiene ricca, moderna, avanzata si è scoperta debole nell’affrontare questa drammatica situazione. L’Italia fa i conti : con un sistema sanitario al collasso – dopo che per anni si è fatto di tutto per smantellare la sanità pubblica -; con un apparato di protezione sociale troppo debole; con un mondo del lavoro frammentato e fragile – lavoratori precari, sottopagati, sfruttati-, esposto al rischio del contagio spesso inutilmente; con una diffusa povertà che ha portato sull’orlo della fame centinaia di migliaia di persone. Tutto questo, è chiaro, non scomparirà col vaccino e neppure se i fondi del Recovery ammontassero a mille miliardi.
Per contro è risultato evidente quali sono le nostre reali e inderogabili necessità: disporre di cibo sufficiente, vivere in comunità solidali, usufruire di un sistema sanitario diffuso ed efficace.

I frutti avvelenati dell’aggressione alla natura

Tra le tante evidenze che la pandemia ha reso inoppugnabili c’è la grave emergenza climatica e ambientale che, a parere della stragrande maggioranza degli scienziati, ha messo in atto processi irreversibili se non si interviene immediatamente e radicalmente. La stessa odierna pandemia è il frutto avvelenato di un’aggressione alla natura senza precedenti. Già da tempo gli scienziati avvertivano del possibile pericolo di una pandemia: la Sars, la Mers, l’aviaria degli anni scorsi ci hanno fatto correre il rischio di precipitare nel buio in cui ci troviamo adesso. E non è escluso che nuovi patogeni e nuove pandemie si profilino all’orizzonte, se non si pone rimedio al sistematico depredamento delle risorse e dei beni. Se la crisi pandemica non è estranea alla crisi ecologica, anzi ne è la diretta conseguenza, le molteplici crisi che da decenni ci affliggono – economica, sociale, di genere, intergenerazionale, di equità, di valori – sono legate tutte da un filo che conduce diritto al sistema di produzione di mercato basato sulla crescita e sull’accumulazione. Persino la parola crisi appare perciò riduttiva, se consideriamo che l’impiego della potenza scientifica e tecnologica da parte del capitalismo da sempre costituisce una continua aggressione agli esseri viventi e all’intero ecosistema. Così il precario benessere di cui gode una parte minoritaria degli uomini che abitano il pianeta terra, è veramente ben poca cosa se paragonato a tutte le guerre, le distruzioni, le sofferenze che il modello occidentale ha causato. Non di una semplice riconversione ecologica c’è bisogno oggi, ma di un cambio di paradigma produttivo e sociale, di un’economia che trovi fondamento nella natura e sia a misura umana, di una società che si basi sul mutuo appoggio e sull’autogoverno.

Per un cambio di paradigma produttivo e sociale

Un’esperienza così sconvolgente e dirompente come quella che stiamo vivendo avrebbe dovuto mettere in discussione radicalmente il nostro modello di sviluppo. Invece così non è, il dibattito pubblico è tutto teso a ripristinare le condizioni precedenti, proprio quelle che ci hanno scaraventato in questo cul de sac e stanno mettendo a repentaglio il futuro delle giovani generazioni. Simbolicamente due questioni rappresentano questo clima che ha il sapore della restaurazione: il debito pubblico e la patrimoniale. In Italia, in particolare, si tratta per le classi dirigenti – politici, imprenditori, intellettuali – di due argomenti tabù. Il debito pubblico crescerà in modo smisurato per affrontare l’emergenza, il buon senso dovrebbe suggerire che in questo momento sarebbe opportuno: primo non continuare a indebitarsi e reperire i fondi necessari da risorse interne – tassazione delle ricchezze accumulate, lotta all’evasione, taglio delle spese inutili, a cominciare da quelle militari e per le grandi opere dannose, attivazione di un circuito economico su scala locale attraverso strumenti di scambio alternativi (moneta di conto come il sardex, ad esempio) -; secondo distribuire il peso del debito in modo da far pagare di più a chi più ha, attraverso l’introduzione di una patrimoniale o di una tassazione adeguata che colpisca le grandi e le medie fortune; terzo ridiscutere una volta per tutte l’esistenza stessa del debito per giungere ad una sua cancellazione. Niente di ciò è all’ordine della discussione generale e quando se ne parla incidentalmente è solo per stigmatizzare chi ha osato pensare che sarebbe opportuno far pagare anche chi possiede grandi ricchezze. Dovrebbe stupire che oggi in Italia non esista un efficace sistema di tassazione progressivo, avviene invece esattamente il contrario: chi lo propone è considerato sovversivo o inguaribile sognatore.
La verità invece è che il debito pubblico accumulato dall’Italia nel corso degli ultimi trent’anni è stato ripagato abbondantemente con gli interessi: su 2.200 miliardi di debito sono stati pagati 3.300 miliardi (dati 2017). Nella storia si è sempre verificato che quando un debito diventa inesigibile o ingiusto viene cancellato. Perché nulla fanno politici e partiti è una domanda alla quale dovremmo rispondere collettivamente.

Mettere in discussione il modello della crescita quantitativa e la società di mercato

Mentre il dibattito su debito e patrimoniale viene censurato, ampio spazio viene dato ai temi della riconversione ecologica e della digitalizzazione. Se la connessione tra pandemia ed ambiente non viene chiaramente esplicitata, tuttavia nessun governo (o quasi) oggi nega l’esistenza di un’emergenza ecologica. Da qui la proposta di misure che limitino l’impatto delle attività umane, soprattutto riguardo all’emissione di CO2. Il green new deal è lo slogan adottato a livello mondiale per marcare l’impegno dei governi nella transizione ecologica. Ma come si può pensare di invertire la rotta sulla questione ambientale e parlare di sviluppo sostenibile senza mettere in discussione il modello della crescita quantitativa e l’organizzazione della società di mercato? Per fare un solo esempio molta enfasi viene posta sull’importanza di modificare alcuni comportamenti individuali e collettivi, come il consumo eccessivo di carne e il ricorso a mezzi di trasporto privati. Non che tali comportamenti non possano essere modificati, ma se per un attimo immaginiamo che nel giro di qualche mese tutti consumassimo meno carne o ci spostassimo con mezzi pubblici è facile prevedere uno shock del sistema attuale. Ancora, mangiare cibi naturali e biologici farebbe bene alla nostra salute e a quella dell’ambiente. Ma se non si riorganizza il sistema della produzione, della distribuzione, del lavoro, persino del tempo di vita delle persone, solo una infima parte della popolazione potrà adottare questi comportamenti virtuosi, con impatto quasi nullo sulla salute della terra. Non basta allora parlare di riconversione ecologica, questa società non può essere riconvertita in termini ecologici perché il suo modello di sviluppo è in contrasto col rispetto della natura (e degli uomini).
La digitalizzazione, d’altra parte, viene prospettata come la soluzione a molti problemi del post ma anche del pre-pandemia, come l’inarrestabile futuro delle nostre società, cui il contagio sta facendo da acceleratore. Per questo i governi intendono avviare intensi programmi di informatizzazione. Vi sono tuttavia molte questioni irrisolte sull’impatto generale di un futuro digitale che dovrebbero indurre cautela e diffidenza da parte delle popolazioni. Ne elenchiamo alcune. Innanzitutto una maggiore automazione nell’attuale mondo del lavoro non può che comportare più precarizzazione e disoccupazione. In secondo luogo, attualmente reti e dati sono nelle mani di alcune grandi multinazionali. Maggiore digitalizzazione in questo contesto vorrà dire consegnarsi definitivamente allo strapotere dei magnati di internet. Ancora recenti studi delle neuroscienze hanno evidenziato come il cervello dei cosiddetti nativi digitali si stia modificando a causa della loro esposizione alla tecnologia. E’ una questione enorme che richiederebbe molta prudenza. Inoltre, se per salvare il pianeta bisognerà andare verso una territorializzazione della produzione e delle relazioni, quale dovrebbe essere l’utilità di una rete così diffusa e pervasiva? Infine, il controllo dei dati attraverso sofisticati algoritmi sta sempre più diventando un efficace strumento di controllo sociale da parte di governi ed enti privati che così manipolano comportamenti e orientano opinioni.

Non aspettiamoci risposte dai governi

Nessuna risposta decisiva alla pandemia può dunque venire dai governi, intenti a tutelare privilegi e gerarchie, a perpetuare strutture economiche e finanziarie vigenti. Non lasciamoci ingannare dall’apparente e rinnovato protagonismo degli Stati che si sono assunti l’onere della risposta alla pandemia. Questo interventismo è oggi frutto dell’emergenza ed agisce all’interno di un quadro coerentemente neoliberista. Non ci sarà un nuovo riformismo, anche quando i governi sembrano assumere un programma riformista. L’epoca del riformismo, tanto più un riformismo dall’alto operato dai governi anche in assenza di una forte spinta della società, è tramontata. Il riformismo novecentesco trovava la sua ragion d’essere nella volontà di integrare le masse nella società di mercato, per sterilizzarne il potenziale rivoluzionario; oggi un’economia, che in gran parte si autoalimenta attraverso la speculazione finanziaria, può funzionare anche a dispetto, se non contro, la società. Gli andamenti della Borsa e l’accumulazione senza precedenti della ricchezza nelle mani di pochi lo stanno a dimostrare. Del resto governi e capitale hanno sempre collaborato per realizzare la società dello sfruttamento e delle disuguaglianze. Rifondare un’economia sociale dovrà essere compito delle classi subalterne o se vogliamo di quel 99% che, secondo il celebre slogan del movimento Occupy Wall Street, viene soggiogato dall’1%. Solo una forte e determinata mobilitazione sociale che sappia avere una chiarezza di obiettivi e un’autonomia di iniziativa può provare a ribaltare una china che altrimenti appare indirizzata verso nuove e più travolgenti catastrofi.

La storia lo ha dimostrato…

Ma la storia ha anche abbondantemente dimostrato che una prospettiva anarchica e libertaria è quella che può portare ad una svolta reale. Gli strumenti teorici e pratici dell’anarchismo, messi in atto a più latitudini da vari movimenti popolari, sono quelli più consoni al grado di liberazione cui l’umanità oggi aspira. Azione diretta, equivalenza mezzi-fini, socializzazione e autogestione. Occorre, come si diceva, avere ben chiaro il percorso da intraprendere, la metodologia di lotta, l’approdo verso una società liberata. Chiamiamola società della decrescita, della sussistenza, della cura, del buen vivir, non è una questione nominale, è fondamentale che tale società affronti l’emergenza ecologica e concretizzi sempre più spazi di libertà e forme di uguaglianza. Per realizzare ciò si deve attivare un processo decisionale che parta dal basso attraverso assemblee di quartiere, di paese e nei luoghi di lavoro, fino ad abbracciare ambiti sempre più ampi sul piano regionale, nazionale e internazionale; un processo che applichi i principi della democrazia diretta, della rotazione e della revocabilità degli incarichi. Strumenti privilegiati per condurre lotte sempre più profonde e determinate dovranno essere: scioperi; scioperi alla rovescia sull’esempio di quelli realizzati dal movimento contadino nel secondo dopoguerra o quelli praticati da Danilo Dolci; blocchi delle attività nocive e dannose; occupazioni delle attività produttive per volgerle al bene collettivo.

Mobilitazione ampia, rivendicazioni precise

Per cominciare sarà necessario costruire una mobilitazione ampia e capace di mantenere una propria autonomia di indirizzo che metta al centro precise rivendicazioni e prefiguri un superamento dell’economia di mercato. Ecco alcune schematiche e immediate proposte da mettere in campo:

Affrontare l’emergenza pandemica: potenziando in prima istanza la medicina di base e l’assistenza domiciliare; mettendo a disposizione di tutti e gratuitamente strumenti di protezione individuale, esami clinici, cure e tamponi; ripensando alla riorganizzazione del sistema sanitario su base territoriale, con autonomia di gestione a livello comunitario e comunale; affidando la gestione dei ristori alle comunità e agli enti locali in modo che possano attingere a risorse diversificate, promuovere forme concrete di solidarietà e prefigurare una riorganizzazione dell’economia locale in senso mutualistico.

Avviare una campagna che, da subito, ottenga una riduzione e distribuzione delle ore di lavoro;

Sostenere e realizzare un’agricoltura naturale, locale e di prossimità che metta al bando prodotti e tecniche (pesticidi, OGM, ipersfruttamento del suolo) dannose, che non ricorra a logiche industriali e riacquisisca una dimensione di rispetto e complementarietà con l’ambiente e gli esseri viventi che lo abitano;

Realizzare forme di distribuzione dei beni legate ad un territorio limitato che contrastino la grande distribuzione organizzata e qualsiasi forma di consumismo;
Riqualificare il territorio e l’ambiente affrontando il degrado idrogeologico, il consumo di suolo, l’inquinamento e mettendo al bando le grandi opere;
Operare la gestione collettiva dell’acqua e del servizio dei rifiuti. Approvvigionamento idrico garantito a tutti e in grado di soddisfare anche le esigenze di un’agricoltura pulita e compatibile; attuazione di una raccolta differenziata dei rifiuti che punti al riciclo e al riuso sul modello zero rifiuti;

Realizzare una mobilità efficace, sicura, interconnessa, accessibile a chiunque e compatibile con il benessere dell’ecosistema; consentire a tal fine il potenziamento dei mezzi ecologici e la partecipazione collettiva ai progetti di sviluppo e di adeguamento dei sistemi di mobilità;

Opporsi alle spese militari, alle politiche di militarizzazione dei territori, alla produzione e al commercio di armamenti, alla presenza militare nelle diverse aree globali sottoposte alle strategie imperialiste, per destinare le ingentissime risorse risparmiate ad ambiti essenziali e vitali per la popolazione;

Liberarsi dal mito dell’industrializzazione, dello sviluppo e della crescita, insostenibili per l’ambiente, per gli esseri umani, per il futuro delle società;
Promuovere forme di organizzazione orizzontali, assembleari, all’insegna dell’azione diretta e in un’ottica federalista, per sviluppare un movimento unitario dal basso che accolga le esperienze di lotta esistenti per inceppare il sistema e gettare le basi per un cambiamento reale del presente.

Federazione Anarchica Siciliana
aderente all’internazionale di Federazioni Anarchiche
fas.corrispondenza@inventati.org – fasiciliana.noblogs.org
febbraio 2021

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